Maurizio Scaini, Università di Trieste

Abstract

Sebbene diverse siano le questioni ancora irrisolte, il conflitto siriano può dirsi concluso con la vittoria delle forze lealiste al governo di Bashir al Assad che controllano, ormai, più dell’80% del territorio nazionale. Come noto, durante la guerra civile siriana, Turchia e Iran si sono schierati su fronti opposti, perseguendo obiettivi politici diversi. I governi dei due Paesi, tuttavia, non hanno interrotto i rapporti diplomatici e la sfera economica è sembrata prevalere, favorendo nuove collaborazioni. Il seguente articolo vuole analizzare la possibilità di espansione di un’area di cooperazione lungo il confine turco-iraniano, con gli scambi commerciali facilitati dalla diffusione di valute come la lira turca e il ryal iraniano e, paradossalmente, dalle sanzioni statunitensi imposte ad Ankara e Teheran, a più riprese, negli ultimi anni. Se questa tendenza, già in atto, dovesse consolidarsi, le popolazioni che vivono lungo la frontiera turco iraniana, potrebbero fungere da volano e da esempio anche alle minoranze curde residenti in Siria e Iraq, ponendo nuove prospettive per gli equilibri regionali nel lungo periodo.

Key words: borders, energy, Iran, Syria, Turkey.

  1. Iran e Turchia sullo scenario siriano

Nell’ultimo decennio, i rapporti tra Iran e Turchia sono stati condizionati dalla guerra civile in Siria. Questo evento ha spesso semplificato le analisi e le descrizioni dell’evolversi delle relazioni turco-iraniane che hanno, per lo più, insistito sulla contrapposizione tra i due governi. Il conflitto siriano, almeno in termini militari, è stato da tempo deciso a favore del regime di al Assad. Le forze di Damasco assieme a quelle alleate, attualmente, controllano circa i due terzi del paese su cui si concentra oltre il 70% della popolazione. La guerra ha colpito duramente le principali infrastrutture e il conseguente movimento migratorio ha coinvolto all’incirca il 60% della popolazione siriana[1]. La distruzione è stata disomogenea. I danni più gravi si sono concentrati nelle aree che sono state oggetto di contesa, in alcuni casi per anni, perdute e poi nuovamente catturate dalle forze filo regime oppure da quelle insorte o dall’IS, come nel caso del Rojava.

Gli interessi geopolitici contrapposti e le diverse visioni per il futuro assetto politico e sociale della Siria appaiono inconciliabili. Al momento, non esiste alcuna prospettiva credibile per una soluzione negoziata del conflitto che faccia sperare in una pace duratura e in una successiva fase di stabilizzazione dell’area. La causa principale dipende dalla moltitudine di milizie nazionali e straniere ancora schierate sul territorio siriano. Oltre all’esercito di Damasco, almeno due potenze regionali, Iran e Turchia, e due potenze globali, Russia e Stati Uniti, continuano a mantenere la propria presenza militare nel paese. Il ruolo svolto dai governi di Ankara e di Teheran non è stato affatto secondario. L’Iran, dal 2012 al 2018, ha elargito aiuti consistenti per sostenere il regime di Damasco[2] e la Turchia, nello stesso periodo, ha speso oltre 45 miliardi di dollari solo per l’emergenza dei rifugiati[3]. Come noto, i due governi, fin dall’inizio della guerra civile, si sono schierati su fronti opposti. Tuttavia, al di là della retorica ufficiale, la situazione reale è più fluida di quanto non appaia e gli interessi comuni sono diversi[4].

Schematicamente, la ragione principale dell’antagonismo turco iraniano sullo scenario siriano riguarda la legittimità del regime di Bashir al Assad. Per l’Iran, il mantenimento del governo di al Assad rappresenta una sorta di linea rossa in quanto la sua eventuale rimozione coinciderebbe con un indebolimento della posizione regionale di Teheran. Più in generale, la questione della legittimità del governo siriano include almeno altri tre problemi importanti: 1) il ritorno dei rifugiati in patria 2) l’attuale presenza militare turca in Siria 3) il processo di ricostruzione. Nonostante accuse e minacce reciproche, Iran e Turchia hanno fatto attenzione a evitare lo scontro diretto durante lo svolgersi del conflitto. Inoltre, ci sono stati diversi casi di cooperazione e ricerca di un’intesa comune relativa agli sviluppi regionali, in particolare per quanto concerne la Siria.

Al momento, i principali interessi in comune di Ankara e Teheran in Siria possono essere riassunti con i seguenti punti: 1) forniture energetiche e cooperazione economica 2) eliminazione dell’autonomia della regione curda del Rojava 3) rimozione delle sanzioni contro l’Iran 4)  evitare l’isolamento internazionale iraniano 5) contenimento del terrorismo 6) equa soluzione della controversia nucleare iraniana 7) opposizione alla presenza militare americana in Siria 8) sostegno alla causa palestinese.

Il primo punto è il più complesso e condiziona anche gli altri. Premettiamo che, fin dai tempi degli imperi ottomano e safavide, le valutazioni economiche sono state prevalenti rispetto all’animosità politica e la diffusione di scambi reciprocamente vantaggiosi è stata storicamente favorita. Similmente al passato, anche negli ultimi decenni la Turchia non ha mai trascurato le relazioni con Teheran, considerata l’importanza di petrolio e gas iraniani per la propria economia. I rapporti sono continuati anche quando l’Iran era considerato uno “Stato canaglia”, accusato di avere ambizioni nucleari e sostenere il terrorismo fondamentalista durante l’amministrazione Bush. Solo quando la Turchia si è trovata di fronte alla concreta minaccia di sanzioni economiche, ha pensato di rivalutare la provenienza delle importazioni energetiche senza stravolgere, però, i propri piani energetici. In ogni caso, il governo di Erdogan ha continuato a rappresentare un ostacolo ai tentativi dell’amministrazione americana di isolare l’Iran, minimizzando, di volta in volta, la minaccia nucleare e votando contro le sanzioni previste in più occasioni[5].

 

  1. La questione delle sanzioni e le conseguenze sulle relazioni turco-iraniane

Nel 2015 e poi nel 2018, gli Stati Uniti introdussero una serie di sanzioni progressive che prevedevano, oltre alla sostanziale sospensione dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA)[6], il divieto della vendita di aerei e parti di ricambio al governo di Teheran e la successiva estensione delle stesse alle aziende che commerciavano con Teheran, suscitando la disapprovazione dell’U.E. che decise di invocare il Regolamento di Blocco[7]. Nell’agosto 2018, l’amministrazione Trump introdusse l’applicazione di tariffe su acciaio e alluminio turchi. Gli Stati Uniti erano e rimangono il più grande cliente della Turchia per queste due materie prime e la decisione causò una forte svalutazione della lira turca nei confronti del dollaro. Questi provvedimenti furono ritirati nel 2019 ma, in seguito alla decisione da parte di Ankara di acquistare i missili S-400 dalla Russia, altre sanzioni, seppur blande ma tutt’ora in vigore, sono state introdotte nel 2020[8]. A detta di molti, le iniziative americane nei confronti del governo turco sono apparse contraddittorie e denotano l’intenzione da parte di Washington di non esasperare le relazioni con la Turchia, considerato un alleato prezioso[9].

La tempistica della campagna dell’amministrazione americana contro la Turchia non si è rivelata particolarmente vantaggiosa per gli obiettivi della politica statunitense soprattutto nei confronti dell’Iran. Complessivamente, il governo di Erdogan ha ignorato le sanzioni americane e ha continuato ad acquistare petrolio e gas da Teheran. La vicinanza geografica tra i due Paesi, il fabbisogno energetico e la particolare situazione finanziaria della Turchia nonché le relazioni deteriorate con gli Stati Uniti, sono stati incentivi decisivi per aggirare le sanzioni. Il carbone rimane la risorsa energetica primaria della Turchia. Dal 2014 fino al 2019, ultimo anno in cui i dati sono comparabili, la Turchia ha generato il 30% dell’elettricità dal carbone. In questo lasso di tempo, sono stati adottati provvedimenti per aumentare la produzione interna che hanno favorito l’introduzione di nuove tecnologie, privatizzazioni e semplificazioni burocratiche. Contemporaneamente, però, è aumentato anche il fabbisogno interno e, alla fine, i consumi complessivi sono, comunque,  cresciuti di un terzo negli ultimi dieci anni[10].

Il carbone è la fonte di energia meno compatibile con l’ambiente e gli sforzi in corso a livello mondiale per ridurre l’uso di questa fonte sono noti. Per questi motivi, negli ultimi anni, i produttori turchi di energia elettrica si sono progressivamente rivolti al gas naturale. La Turchia, tuttavia, dispone di poche risorse. Sebbene siano stati trovati promettenti giacimenti di gas naturale nel Mar Nero che potrebbero coprire fino al 20% della domanda interna, la costruzione dei primi oleodotti comincerà solo nel 2023 e l’entrata regime dei nuovi impianti è prevista a partire dal 2025, nella migliore delle ipotesi. Attualmente, il Paese continua a dipendere per oltre il 99% del suo fabbisogno di gas naturale dalle importazioni, soprattuto dalla Russia[11]. Similmente al gas, la Turchia, copre oltre il 90% della propria domanda petrolifera con le importazioni provenienti da tre Paesi ovvero Iran (39,5%), Russia (32%), Kazakistan (19%)[12]. Infine, considerate le dinamiche demografiche, la propensione settoriale agli investimenti e l’andamento del PIL, è presumibile che il fabbisogno energetico turco continui a crescere nell’immediato futuro, similmente alla richiesta energetica registrabile in altri Paesi emergenti[13].

La decisione da parte dell’amministrazione Trump, nel 2018, di imporre nuove sanzioni all’Iran aveva anche l’obiettivo di rendere più vulnerabile l’economia turca che aveva aumentato le sue importazioni petrolifere e di gas dall’Iran. La Turchia non ha mai assecondato le richieste statunitensi in questo senso, anzi in risposta, confermò, fin da subito, la fornitura di 9,5 miliardi di metri cubi di gas iraniano, concordata nel 2016 e che si prolungherà fino al 2026. Le scelte energetiche turche hanno dovuto considerare una serie di ostacoli. Il primo è legato alle transazioni di gas e petrolio che hanno ancora come valuta di riferimento il dollaro. Poiché le sanzioni americane miravano a colpire anche le aziende che conducevano transazioni in euro e poi commerciavano con gli Stati Uniti, per la Turchia, le uniche valute possibili per garantire le  proprie forniture energetiche restavano la lira turca e il ryal iraniano.

Nel tentativo di aggirare le sanzioni americane, altri Paesi scelsero opzioni simili come, ad esempio, la Cina che, attraverso l’istituto di credito Kunlun, ha evitato le sanzioni americane, pagando le forniture energetiche iraniane con la propria valuta[14]. In questo modo, il governo di Pechino ha rafforzato i propri legami con quello di Teheran, in quanto le somme elargite in yuan venivano in seguito spese, per lo più, sul mercato cinese. Nel caso della Turchia, gli ambiti di manovra iraniani sono più ampi e non si limitano solo all’acquisto di merci turche. Lungo le aree di confine turche, iraniane, irachene e siriane, infatti, la lira turca e il ryal iraniano sono diventate, ormai, valute normalmente usate. Queste regioni sono abitate in prevalenza da popolazioni curde e questo ha favorito il progressivo espandersi di un’area di scambio informale trans frontaliera, similmente a quanto avviene in altre aree confinarie, ad esempio, tra Canada e Stati Uniti, in certi Paesi caraibici o centro americani dove il dollaro è comunemente accettato.

La Turchia, ad oggi, continua ad importare solo modiche quantità di petrolio e gas dagli Stati Uniti, di conseguenza, molte delle raffinerie turche non sono state direttamente colpite dalle sanzioni relative al commercio di petrolio iraniano. I contratti per le forniture energetiche in vigore tra Ankara e Teheran sono di lunga durata e, qualora venissero interrotti, provocherebbero gravi danni alla già vulnerabile economia turca. Poiché la lira turca e il ryal iraniano, nell’ultimo decennio, hanno subito ripetute svalutazioni rispetto alla valuta statunitense, i due Paesi hanno tutto l’interesse ad aggirare il sistema di pagamenti energetici in dollari, a prescindere dalla presenza o meno di eventuali sanzioni[15]. In ogni caso, anche se lo sfruttamento dei nuovi giacimenti di gas nel Mar Nero dovesse modificare i futuri assetti energetici della Turchia, lo sviluppo dell’attuale area d’integrazione economica lungo il confine turco-iraniano potrebbe seguire dinamiche proprie ed estendersi anche ai Paesi limitrofi, favorendo la normalizzazione delle relazioni tra i vari stati e le minoranze curde che ci vivono.

L’Iran, infatti, rappresenta per la Turchia il transito naturale per le sue esportazioni in Asia centrale e le connessioni con la Nuova Via della Seta cinese che prevede un asse ferroviario[16]. Stando alle dichiarazioni più recenti e osservando l’andamento degli investimenti nel settore, la Turchia mira a diventare, nel prossimo futuro, una sorta di hub energetico mondiale, dove dovrebbero convergere le forniture di gas e petrolio provenienti dai Paesi centro asiatici e del Golfo e destinati soprattutto all’Europa. In seguito alla recente decisione degli Stati Uniti rimuovere le sanzioni all’Iran, il governo di Teheran necessiterà dei depositi turchi per reintegrare le sue esportazioni di gas e petrolio verso i paesi europei.

Le due economie appaiono interconnesse anche sotto altri aspetti. Nell’ultimo decennio, è registrabile un lieve ma costante movimento migratorio dall’Iran verso la Turchia che coinvolge un ceto, per caratteristiche, definibile come medio alto. Dopo le sanzioni del 2018, gli iraniani sono diventati la prima comunità straniera ad investire nel settore immobiliare in Turchia e molte sono state le aziende che si sono trasferite o hanno deciso di aprire una propria succursale in territorio turco, attratte dalla svalutazione della lira turca, da una burocrazia meno incerta, tasse complessivamente più basse, dalle facilitazioni nell’acquisizione della cittadinanza turca[17].

Il processo di consolidamento di un’area di cooperazione trans frontaliera, seppure informale, unitamente alle tradizionali divisioni e rivalità interne al mondo curdo, è funzionale alla strategia di Ankara nella regione che ha come obiettivo il ridimensionamento del progetto del confederalismo democratico internazionalista curdo del Rojava e al conseguente isolamento e marginalizzazione delle forze più radicali, in primis, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). Nel contempo, anche Teheran ha interesse a isolare e ridimensionare le frange antagoniste delle comunità curde che vivono entro i propri confini nazionali e che nell’ultimo periodo hanno ripreso la loro attività armata[18].

In questo complesso e delicato scenario, l’attuale frammentazione dell’Iraq, uno stato in profonda crisi istituzionale, ormai gestito principalmente da due forze esterne, quali Iran e Turchia, lo stallo dei negoziati in Siria, la storica ostilità dei curdi del clan di Barzani nei confronti del PKK e del YPG (Milizie di Protezione Popolare) del Rojava, sono variabili che potrebbero essere favorevoli al disegno di Ankara e che, in definitiva, rispondono anche alle esigenze iraniane di stabilità nelle aree a maggioranza curda della Repubblica islamica.

 

  1. Conclusioni

Il vuoto geopolitico lasciato da Russia e Stati Uniti in Medio Oriente, conseguentemente alla guerra ucraina, ha aumentato gli spazi per le iniziative turco iraniane nella regione. La collaborazione turco-iraniana, per ora, resta strategicamente circoscritta e la sua tenuta, di fronte a eventuali crisi future, deve essere ancora verificata dal momento che esistono fattori di divergenza importanti. Il Kurdistan, soprattutto quello iracheno, rimane frammentato in una miriade di milizie dalle alleanze fluide, suscettibili all’influenza di governi e poteri esterni e soggette a imprevedibili risentimenti, rivalità e calcoli personali dei rispettivi capi locali. I recenti progetti di cooperazione, avviati tra Turchia e Azerbaijan, che prevedono, tra le altre cose, il mutuo sostegno e sofisticate forniture militari da parte di Ankara a Baku, pongono quesiti non secondari sulle possibili aree d’influenza turco iraniane e gli equilibri futuri in Caucaso[19].

Ampliando il raggio di osservazione, va constatato che gli sforzi diplomatici turco-iraniani per cercare di ridurre le tensioni tra il mondo sunnita e quello sciita, sebbene abbiano aperto spiragli negoziali prima inesistenti, sono ancora lontani dall’ottenere risultati concreti e duraturi. In definitiva, Turchia ed Iran stanno cercando di definire nuove dinamiche di autonomia regionale che sfruttano il generale malcontento derivante dagli errori commessi dall’Occidente in Medio Oriente e che mettono in discussione, una volta di più, il preteso ordine unilaterale a guida statunitense e sulle quali convergono, ormai, anche gli interessi di Russia, Cina e di altri Paesi emergenti.

 

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[1] La guerra civile siriana, a metà del 2020, quando il fronte si è sostanzialmente congelato, aveva provocato 690.000 vittime, l’esodo di 5.500.000 rifugiati all’estero e una migrazione interna di 6.500.000 persone. Il costo totale del conflitto è stato stimato in 530 miliardi di dollari. Syrian Center for Policy Research, 27/05/2020.

[2] La presenza iraniana in Siria è concretamente visibile soprattutto nella parte orientale del Paese dove sono stati avviati consistenti investimenti per la ricostruzione di infrastrutture civili, nel settore immobiliare e definiti importanti contratti a favore di aziende e banche iraniane per la gestione della rete elettrica, telefonica, di miniere di rame e fosfati. Per un approfondimento sull’argomento rimandiamo a Shaar K. and Fathollah-Nejad A., 2020 e a Hatachet S., 2019.

[3] Sull’argomento rimandiamo a UNHCR (ed.), 2022. Gli investimenti turchi in questa provincia fanno presumere ad una strategia lungo periodo da parte di Ankara. La rete elettrica è stata connessa a quella turca, le strade sono state ripristinate, sono stati aperti ospedali, scuole, strutture sportive, il governo di Ankara si è fatto carico del pagamento degli stipendi del personale del settore pubblico e la lira turca è diventata la valuta più utilizzata. Drevon J., Haenni P., 2020, pp. 42-47.

[4] Ad esempio, nel 2019, le esportazioni turche verso la Siria hanno raggiunto la quota di 1,7 miliardi di dollari, attestandosi sullo stesso livello del 2010. Gli attuali progetti di cooperazione turco-iraniana sono aumentati da 10 miliardi a 30 miliardi di dollari dal 2012 al 2019. Sull’argomento rimandiamo a Atlas of Economic Complexity, 2019.

[5] Per una visione complessiva delle posizioni turche verso le sanzioni americane nei confronti dell’Iran rimandiamo a Ustun K, 2010, pp. 19-26.

[6] Il Joint Comprehensive Plan of Action, (JCPOA) fu ratificato il 14 luglio del 2015 e vide, oltre all’Iran, il coinvolgimento dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, più l’U.E. Sull’argomento rimandiamo a Resinger S.H., Caine K.,  McDougall K., Tang W., 2020.

[7] Il Regolamento di Blocco (n. 2271/1996) mira a neutralizzare gli effetti delle normativa americana pregiudizievole per le attività commerciali dei soggetti dell’Unione Europea con un paese terzo, nel caso di specie l’Iran. Sull’argomento rimandiamo a Commissione Europea, 03/09/2021.

[8] Le ultime sanzioni applicate alla Turchia da parte americana, nel 2020, penalizzano alcune industrie militari non statali turche. Sull’argomento rimandiamo a Pompeo M., 14/12/2020.

[9] Il caso della Halkbank è emblematico. La Halkbank è un’istituto bancario turco, coinvolto nel 2012 in uno scandalo finanziario che riguardava la famiglia di Erdogan e che prevedeva una complessa rete clandestina di contrabbando di oro verso l’Iran. Il traffico coinvolgeva altri Paesi e aveva l’obiettivo di aggirare le sanzioni statunitensi verso Teheran. Il volume d’affari, stimato intorno ai 20 miliardi di dollari, fu bloccato in seguito alle sanzioni statunitensi sui metalli preziosi applicate alla Turchia. Trump fu più volte criticato dai mass media statunitensi e dai suoi ex collaboratori del tempo per aver cercato di insabbiare la vicenda e proteggere Erdogan e Reza Zarrab, uomo d’affari turco iraniano, con la residenza statunitense, arrestato in Florida nel 2016 e coinvolto nello scandalo. Sull’argomento rimandiamo a Bjorklund K., 09/2021.

[10] Sull’argomento rimandiamo a TheGlobalEconomy.com, 2022.

[11] A partire dal 2015, la Russia ha fornito alla Turchia, in media, il 56% del suo fabbisogno di gas naturale. Dall’Iran e dall’Azerbaijan, nello stesso periodo, la Turchia ha importato, rispettivamente, il 16% e l’11% delle forniture. Sull’argomento rimandiamo a Kaya N.E., 25/10/2021.

[12] Sull’argomento rimandiamo a Hurriet Daily News 24/02/2022.

[13] Nell’ultimo decennio la domanda turca di petrolio è aumentata del 28%. Sull’argomento rimandiamo a IEA, 2021.

[14] Gli Stati Uniti hanno cercato di applicare alla banca cinese le sanzioni previste ma poiché la Kunlun Bank non era esposta agli interessi americani, queste non hanno avuto effetto. Sull’argomento rimandiamo a Mortolock D. and Wald E., 2018.

[15] La lira turca e il ryal iraniano, tra il 2010 e il 2020, hanno perso l’80% del loro valore nei confronti del dollaro. Sull’argomento rimandiamo a Bucci L., 30/04/2022 e a Ali Fathollah-Nejad M.G.A, 30/11/2020.

[16] Sull’argomento rimandiamo a Ikiz A.S., 2020, pp. 459- 488.

[17] Gli investimenti iraniani nel settore immobiliare, tra il 2018 e il 2020, sono stati pari a 7 miliardi di dollari, una cifra che, secondo molti esperti, ha evitato il probabile tracollo del comparto. Sull’argomento rimandiamo a EghtesadOnline, 10/02/2021.

[18] La minoranza curda presente in Iran è stimata tra gli 8 e i 10 milioni, pari al 10-12% della popolazione totale. Sull’argomento rimandiamo a Nada G., Crahan C., 3/02/2021.

[19] Sull’argomento rimandiamo a Huseynov V., 22/09/2020.