di Andrea Cafiero

 

Abstract

Il populismo è un fenomeno diffuso, un termine comune nel linguaggio giornalistico e in quello dei mass media in generale. E’ facilmente deducibile che questa parola derivi dal termine “popolo”, ci si chiede, però, a quale “popolo” le forze populiste si rivolgano nel cercare consenso, quali siano le istanze perseguite da esse e a quale “popolo” possano interessare. Ci si chiede, inoltre, quali siano state le cause e gli avvenimenti che hanno favorito la proliferazione di queste forze politiche nel passato, al fine di provare a comprendere se cause e avvenimenti simili possano provocare lo stesso effetto anche nel presente e nel futuro.

 

   Key words: populism, democracy, leader, élite, people.

 

  1. Origini del fenomeno: Zemlja i Volja

Il populismo trova le sue origini in Russia,  dopo la prima metà dell’Ottocento, nel movimento politico culturale Narodnicestvo. La diffusione di esso avvenne grazie a studenti e intellettuali che puntavano a mobilitare le masse contadine contro l’autoritarismo zarista e feudale, che li obbligava a condizioni di vita dure e a un forte sfruttamento.

Aleksandr Herzen, importante intellettuale dell’epoca, è considerato fondatore del populismo russo (Poggio, 2007). Di origine nobiliare e figlio di un’importante proprietario terriero, aveva posizioni politiche vicine a quelle del socialismo agrario.

Le idee di Herzen erano di matrice fortemente antiborghese. Egli sosteneva lo sviluppo dell’autonomia e dell’individualità delle masse contadine, compromesse dall’autoritarismo zarista e dalla natura feudale della società russa dell’epoca. In senso più ampio, esso sosteneva che gli individui dovessero liberarsi dall’autocrazia messa in atto dalle élite. Furono queste le idee da cui si sviluppò, nel 1861, il primo movimento rivoluzionario e populista: Zemlja i Volja, ovvero Terra e Libertà.

Le rivendicazioni di questo movimento erano fortemente pragmatiche e trovarono il consenso di numerosi intellettuali. Esso promuoveva l’instaurazione di un parlamento eletto democraticamente e capace di contrastare le politiche autocratiche dello Zar. Inoltre si richiedeva la dichiarazione della libertà delle masse contadine dalle corvées, ovvero dalle prestazioni dovute alla nobiltà, proprietaria dei feudi. Veniva rivendicata la proprietà dei contadini riguardo agli appezzamenti di terra che lavoravano quotidianamente e l’istituzione di comunità autonome che si sarebbero occupate dell’organizzazione dell’attività agricola, le quali non avrebbero dovuto pagare alcun riscatto per le terre stesse.

Nel 1863, nei territori delle odierne Polonia, Lituania e Bielorussia, scoppiò una importante rivolta antizarista. In questa occasione, i membri di Zemlja i Volja diedero inizio a un’azione di propaganda clandestina in favore degli insorti, con lo scopo di incitare ulteriormente all’insurrezione contro il dominio dello Zar. La risposta dell’esercito fu cruenta e decisa, gli insorti furono decimati da esecuzioni e deportazioni in Siberia. L’accusa di alto tradimento, e le conseguenti condanne, colpirono numerosi membri di Zemlja i Volja. Tutto ciò portò, nel 1864, allo scioglimento della stessa.

Il fervore rivoluzionario, però, non si spense, e una seconda Zemlja i Volja nacque nel 1875. La novità della rinascita di questa forza politica fu un ampliamento delle rivendicazioni, tra cui quella di dividere l’Impero Russo fra le diverse nazionalità presenti al suo interno. Al fine di raggiungere tale scopo, oltre al sostegno alle rivolte operaie e contadine si affiancò una tendenza al terrorismo politico.

Molti membri di Zemlja i Volja si trasferirono nelle campagne con lo scopo di attuare un’intensa attività di propaganda volta a esortare alla rivolta. Essi cercarono di integrarsi il più possibile nell’ambiente rurale, ciò però non sconfisse la diffidenza che i veri contadini mostrarono per questi giovani studenti e intellettuali venuti dalle città e la rivolta non scoppiò.

Questi fallimenti e dei dissidi interni all’organizzazione portarono a una scissione interna della formazione politica, che si divise in “campagnoli” e “cittadini”. I primi continuavano a porsi come scopo la mobilitazione e la preparazione ideologica dei contadini, mentre i secondi si radicalizzarono, scegliendo la via della lotta armata al fine di rovesciare il potere zarista (Venturi, 1952).

Queste differenze, divenute insanabili, portarono, nel 1879, allo scioglimento di Zemlja i Volja e alla nascita di due movimenti populisti distinti. Mentre i “campagnoli” diedero vita al movimento Cernyj Peredel, ossia Ripartizione Nera, i “cittadini” costituirono l’organizzazione Narodnaja Volja, ovvero Volontà del Popolo, la quale sviluppò una sintesi, in senso populista e socialista, dei valori che condivideva con la sciolta Zemlja i Volja e con la Ripartizione Nera (Battistrada, 1980), inneggiando però al terrorismo come mezzo necessario al fine di rovesciare lo zarismo.

Fu proprio Narodnaja Volja, nel 1881, a organizzare l’assassinio dello Zar Alessandro II Romanov. Questa azione, al contrario di quanto sperato, non fu seguita da alcuna rivolta popolare, segnando un ulteriore fallimento nelle mire ribellistiche della formazione politica. Il nuovo Zar, Alessandro III, sfruttò l’avvenimento per accusare la popolazione ebraica, per via di motivazioni politiche e economiche (Epstein, 2010). Nel 1886 la Narodnaja Volja scomparve per via delle numerose condanne a morte e accuse di cospirazione eversiva. Saranno i movimenti e i partiti socialisti, protagonisti dei moti rivoluzionari del 1905 e del 1917, a riprendere gli ideali del populismo russo, in particolare ciò fu fatto dal Partito Socialista Rivoluzionario (Zilli, 1963).

 

  1. Il People’s Party americano e il populismo novecentesco del Sud America

Fu proprio al termine narodniki che si ispirarono i membri del People’s Party americano, ossia Partito del Popolo. Questa forza politica nacque nel 1891, ma svanì durante il primo decennio del 1900. Allo stesso modo dei populisti russi, i componenti di questo partito guardavano ai contadini come corpo sociale da organizzare per ottenere una svolta nella politica statunitense dell’epoca, rifacendosi alle idee dell’egualitarismo sociale e del populismo agrario di sinistra (Goodwyn, 1978).

William Jennings Bryan fu il segretario del partito e personaggio più emblematico di esso. Si schierò apertamente contro il potere dei banchieri e delle coalizioni imprenditoriali del paese, lasciandosi andare anche ad interventi dal contenuto piuttosto duro nei confronti di queste forze.

In occasione delle elezioni presidenziali del 1892, il partito ottenne l’8,5%, il più grande successo elettorale per un partito neonato dal 1854, anno della nascita del Partito Repubblicano (Martini, 2013). In seguito, un’alleanza con il Partito Democratico si rivelò disastrosa in termini di consenso politico, portando il People’s Party a non ottenere più nessun successo elettorale paragonabile a quello ottenuto nel 1892 (Goodwyn, 1978).

Un’altra regione geografica che ha avuto un ruolo importante nella storia del populismo, è il Sud America. Il fenomeno ha assunto qui una maggiore importanza e consistenza. Le rivendicazioni e le linee programmatiche dei partiti populisti si sono intrecciate fortemente con la storia coloniale della regione e la questione delle indipendenze. La diffusione e la persistenza del fenomeno sono state maggiori, anche grazie all’assenza della necessità di scendere a patti con il costituzionalismo liberale tipico dell’Europa e del Nord America (Zanatta, 2017).

Il carattere antiélite tipico del populismo russo e americano venne comunque raccolto da alcuni leader latinoamericani. In particolare, già dalla prima metà del Novecento, tre leader politici di diverse nazioni danno il via alla diffusione del populismo in Sud America: Perón, Vargas e Velasco Ibarra.

Juan Domingo Perón fu il fondatore del Partido Justicialista e Presidente dell’Argentina dal 1946 e il 1955 e dal 1973 al 1974, anno della sua dipartita. Socialismo e patriottismo furono alla base della sua linea politica, che rimase alla storia come peronismo. Alcuni studiosi hanno individuato delle similitudini fra esso e il fascismo degli anni ’20 ma, a differenza di quest’ultimo, il peronismo raccolse il proprio consenso dalla classe operaia sindacalizzata e dal riscatto promesso a essa ai danni delle élite. Il fascismo invece, raccolse il proprio consenso nel ceto medio.

In economia, attuò politiche di nazionalizzazione vaste e frequenti. Ricorrendo a un acceso nazionalismo, instaurò una forte retorica delle élite come nemiche e sabotatrici del buon andamento della collettività.

Getùlio Dornelles Vargas, invece, fu Presidente del Brasile dal 1930 al 1945 e nuovamente negli anni Cinquanta. Grazie alla Costituzione approvata nel ’37, ideò l’Estado Novo, un modello politico centralista e corporativista. Attuò un forte interventismo statale in economia e politiche sociali ben accolte dalla popolazione, come l’instaurazione del salario minimo garantito. A queste politiche affiancò un forte autoritarismo e un pressante controllo su stampa e mezzi d’informazione.

Josè Maria Velasco Ibarra fu Presidente dell’Ecuador per ben quattro volte. Il suo populismo ebbe una base di consenso fondata sul ceto subproletario (Cueva, 1977). Opere pubbliche e forte carisma furono alla base dell’approvazione popolare che riscosse.

Non sono certo solo questi i leader che hanno dato vita al fenomeno del populismo sud americano. Essi però sono certamente quelli che hanno delineato il populismo storico che ha contraddistinto diversi paesi di quest’area geografica.

Senz’altro si nota una maggiore insistenza del populismo in quest’area del mondo, rispetto a Nord America ed Europa, dove il sorgere dei populismi sembra coincidere con momenti di crisi economiche, politiche e culturali abbastanza circoscritte da un punto di vista temporale. Le ragioni di ciò vanno ricercate nella storia coloniale che ha caratterizzato il continente, amplificando i sentimenti di riscatto e di rivalsa nei confronti della dominazione straniera e delle ingerenze estere nei fatti che riguardano queste nazioni, nonché nel fattore religioso che ne contraddistingue fortemente l’identità (Zanatta, 2017).[1]

Al contrario di Europa e Nord America, le crisi latinoamericane sono state causate da processi di modernizzazione economica e politica, industriale e costituzionale, avvenuti per lo più nel Novecento, in modo repentino e traumatico: i populismi sarebbero quindi conseguenza delle crisi derivanti da questi processi, legati a una modernizzazione accelerata (Forero Rodriguez, 2013).

Oltre a ciò, un ulteriore problema sarebbe rappresentato dalla debolezza delle istituzioni democratiche sud americane; in questo senso la rigidità del sistema politico e l’incapacità dei leader di dirigere le crisi favorirebbe l’emergere di figure carismatiche (Mackinnon e Petrone, 1999).

L’esempio del populismo sud americano è indicativo di come la Geografia culturale abbia forti ripercussioni nello sviluppo della struttura spaziale, della comunicazione e dei valori dell’individuo, della società e del territorio (Claval, 1995).[2] Da questo punto di vista vi sono pochi dubbi sul fatto che, per motivi culturali, storici, politici e sociali, il populismo latinoamericano abbia delle capacità di adattamento e resistenza difficilmente riscontrabili in altre aree mondiali.

E’ proprio il modello di populismo sud americano ad aver ispirato gli studiosi nella ricerca di una definizione di popolo come comunità contrapposta alle istituzioni, alle elite, al potere economico e alle oligarchie. La prossimità temporale fra i descritti governi populisti latinoamericani e i fascismi europei ha fatto si che l’opinione pubblica considerasse negativamente il fenomeno populista (Palano, 2017).

 

  1. L’avvento del populismo in Europa

 In Italia, il concetto di populismo si diffuse dagli anni ’70 del Novecento. Alcuni studiosi ne individuarono i tratti tanto nella sinistra marxista quanto in alcune componenti del mondo cattolico, soprattutto per via della visione che queste forze avevano dei conflitti sociali e della modernizzazione. Partendo da questi fattori, diversi studiosi cominciarono a descrivere come populiste quelle forze politiche che, seppur non si definivano come tali, abbracciavano alcune rivendicazioni politiche tipiche dei populismi del Sud America (Bobbio, Matteucci e Pasquino, 2016).

Il “Fronte dell’Uomo Qualunque”, nato nel primo dopoguerra, è ritenuto però il primo movimento populista italiano, seppur in esso fossero rinvenibili anche dei caratteri tipici dell’antipolitica (Setta, 1995). In effetti, questo movimento promuoveva la retorica del “noi”, gli individui produttivi del paese, ritenuto il ceto medio borghese, e del “loro”, i politici spesso considerati tiranni, tanto più se politici di professione. Questa forza politica sosteneva però l’assenza della necessità, per il popolo, di essere governato dai politici, che avrebbero dovuto assumere il ruolo di semplici amministratori, neutrali da un punto di vista politico (Giannini, 1945). Da ciò scaturì un’inevitabile equiparazione fra democrazia e dittatura. C’è da dire che l’”uomo qualunque”, in questa esperienza storica, non fu mai fatto coincidere con il popolo nazione, al contrario di molti neopopulismi odierni che spesso tendono ad adottare un approccio identitario rispetto al concetto di popolo. Infatti, il Fronte dell’Uomo Qualunque si pose in polemica tanto col fascismo, quanto con i partiti antifascisti del Comitato di Liberazione Nazionale.

Al contrario, di stampo fortemente nazionalista fu l’Union et Fraternité Française, sorto in Francia negli anni ’50 del Novecento. Alcuni studiosi ritengono che sia questa formazione politica la vera prima forma di populismo in Europa, con tratti vicini al maccartismo (Lipset, 1981). Il popolo come comunità etnica e culturale, l’opposizione al mercato comune europeo, la predilezione per l’uomo comune rispetto al politico e al tecnico, l’avversione per il parlamentarismo e le istanze di democrazia diretta furono alla base delle rivendicazione di questa forza politica. Sia l’esperienza italiana che quella francese ebbero vita breve ma, dalla fine della seconda, nacque il celebre Front National di Jean Marie Le Pen.

Successivamente alla fine di questi due movimenti, il populismo tornò nel dibattito politico europeo negli anni ’70, con i movimenti Fremskridtparti in Danimarca e il Fremdskrittparti in Norvegia. Un’esplosione di esso si ebbe in occasione del risultato elettorale del Front National alle europee del 1984, che ottenne l’11,4% dei voti, un grande e inaspettato successo. Tale fase segnò una tendenza diffusa a ricollegare il populismo con l’estrema destra.

La dissoluzione dell’URSS e la vittoria di Boris Eltsin alle elezioni russe, definito da molti come populista e demagogo, inaugurarono una nuova, diffusa ondata del fenomeno in Europa; al populismo vennero accostati leader come Slobodan Milošević in Serbia, Jörg Haider in Austria, Franz Schönhuber in Germania, ma anche forze politiche di stampo indipendentista come lo United Kingdom Indipendence Party in Gran Bretagna e la Lega Nord di Umberto Bossi in Italia.

Infine, una nuova ondata del fenomeno si sviluppò a partire dagli anni ’90, quando una serie di leader, fino ad allora estranei al mondo politico, si presentarono forti di grandi capacità comunicative, di promesse spesso difficilmente realizzabili e di una tendenza all’uso di una retorica antiélite; in questa fase popolo e pubblico televisivo tesero a coincidere (Taguieff, 2006). Protagonista di questa fase, in Italia, fu Silvio Berlusconi. Da questo periodo si cominciò a parlare di neopopulismo, in relazione alla difficoltà di ricollegare questi personaggi, e le loro forze politiche, alle ideologie che avevano caratterizzato la politica del Novecento. Questa fase ha reso ancor più difficile definire chiaramente il fenomeno. In Italia leader come Berlusconi, Bossi, Renzi, Grillo e Salvini, sono stati definiti populisti diverse volte, nonostante le grandi differenze politiche che intercorrono fra essi. Secondo alcuni autori la vera differenza fra populismo e neopopulismo è che, mentre il primo nasce in contesti autoritari o assolutisti, il secondo avrebbe origine in contesti democratici (Graziano, 2018). Per altri, invece, la differenze starebbe nel cambio della classe sociale di riferimento: al nucleo originario rappresentato dalla classe operaia si affiancherebbero il ceto medio impoverito, i giovani della generazione web 2.0 e, in generale, i perdenti della globalizzazione (Bolaffi e Terranova, 2014). Insomma, la storia del populismo e della sua versione moderna, il neopopulismo, è ormai più che secolare. Eppure sembrerebbe sempre più difficile, col passare del tempo, inquadrare il fenomeno in maniera univoca.

 

  1. Conclusioni

In base a quanto osservato finora, sembrerebbe corretto affermare che il filo conduttore che lega le esperienze esposte precedentemente, sia una ferrea anteposizioni alle élite politiche o economiche o entrambe, sia che si faccia riferimento alle prime esperienze populiste, sia che si analizzino quelle più recenti. L’individuazione di un popolo di riferimento che sia in grado di costituire il “noi” da anteporre al “loro”, risulta essenziale, a prescindere dal fatto che questo “noi” sia costituito da individui appartenenti alla stessa nazione, a una stessa classe sociale o, semplicemente, sia costituito dall’uomo comune, produttivo e depositario di onestà e virtù ritenute innate. Inoltre, sembrerebbe corretto affermare che le crisi, che siano di tipo economico, politico, culturale o sociale, possano fungere da spinta propulsiva in relazione al consenso ottenuto dalle forze populiste e neopopuliste, come dimostrerebbe la propagazione del fenomeno in aree geografiche e Stati che hanno attraversato crisi profonde come, ad esempio, quella politica scaturita dall’inchiesta “Mani Pulite” in Italia, che ha favorito l’ascesa al potere di Silvio Berlusconi negli anni ’90.

 

Bibliografia:

Bobbio N., Matteucci N. e Pasquino G. (2016), “Dizionario di Politica”, Torino, Utet;

Bolaffi G. e Terranova G. (2014), “Marine Le Pen e Co. Populismi e neopopulismi in Europa con un’intervista esclusiva alla leader del Fronte Nazionale”, Firenze, Goware;

Claval P. (1995), “La Geografia culturale”, Milano, DeAgostini;

Cueva A., in Casanova P.G. (1977), “En América latina en los anos treinta”, Città del Messico, Universidad Nacional Autonoma de Mexico;

Forero Rodríguez M.A. (2013), “Incidencia del neopopulismo en el proceso de integratión de la CAN”, Bogotà, Universidad de Bogotá Jorge Tadeo Lozano;

Giannini G. (1945), “Folla”, Roma, Faro;

Goodwyn L. (1978), “The populist moment: a short history of the agrarian revolt in America”, Oxford, Oxford University press;

Graziano P. (2018), “Neopopulismi. Perché sono destinati a durare”, Bologna, Il Mulino;

Lipset S. (1981), “Political Man”, Baltimora, The Johns Hopkins University Press;

Mackinnon M.M. e Petrone M.A. (1999), “Populismo y neopopulismo en América Latina. El problema de la Cenicienta”, Buenos Aires, Eudeba;

Palano D. (2017), “Populismo”, Milano, Editrice Bibliografica;

Poggio P.P. (2007), “Il populismo russo: percorsi carsici”, Brescia, Fondazione biblioteca archivio Luigi Micheletti;

Setta S. (1995), “L’Uomo Qualunque”, Roma-Bari, Laterza;

Taguieff P. (2006), “L’illusione populista”, Milano, Mondadori;

Venturi F. (1952), “Il populismo russo”, Torino, Euinaudi;

Zanatta L. (2013), “Il populismo”, Roma, Carocci;

Zilli V. (1963), “La rivoluzione russa del 1905. La formazione dei partiti politici (1881-1904)”, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici.

[1] «L’utopia populista di porre di nuovo il popolo al centro da cui ritiene sia stato indebitamente scalzato riscattandone l’identità tende in contesti simili a confondersi con la tradizionale utopia cristiana di restaurare omnia in Christo.»

[2] Da sempre, le diverse culture sperimentano lunghe fasi di stabilità interrotte da scioccanti crisi di ristrutturazione che determinano cambiamenti epocali. E’ il caso della rivoluzione delle comunicazioni che stiamo vivendo nella nostra epoca e che sta contribuendo, in un certo senso, a esasperare i sentimenti identitari odiernamente diffusi in gran parte del globo.